Il nostro rapporto col passato è fondante per la nostra identità, sia essa individuale, collettiva o culturale. Del resto, in altre parole, come interpretiamo il mondo e noi stessi è in larga parte il frutto di come recuperiamo esperienze passate, in quanto individui o gruppi sociali, e in funzione di esigenze presenti o future.
La memoria sembra affiorare ovunque, nei campi più disparati: da quello politico a quello artistico, da quello sociale a quello tecnologico, ed è particolarmente osservabile nei media, che sono in costante dialogo con immaginari preesistenti, ovvero forme di rappresentazione culturalmente determinate, e che svolgono il ruolo di intermediari tra noi e la realtà che ci circonda. Gli studi sulla media memory si occupano proprio di questo: se i media svolgono un ruolo di filtro di primaria importanza tra noi, il mondo e noi stessi, allora è fondamentale capire come trasformino la nostra identità anche e soprattutto modificando la nostra memoria (Neiger et al. 2011).
Nelle righe che seguiranno, cercherò di rispondere a due domande: che cosa succede alla nostra memoria quando videogiochiamo? E quale riflessione più ampia circa il nostro rapporto col passato può scaturire dall’uso dei videogiochi come campo d’analisi?
Ipotizzerò delle risposte partendo da una doppia premessa: da una parte, che i videogiochi siano mondi virtuali a tutti gli effetti da un punto di vista fenomenologico. Dall’altra, che la nostra memoria abbia una natura intrinsecamente mediale, e che quindi il modo che abbiamo di percepire il passato (e la nostra capacità di farlo in sé) si evolva di pari passo col nostro ecosistema tecnologico. Servirà quindi passare brevemente da questi due preamboli per arrivare a riflettere su cosa significhi giocare con la memoria, e che cosa si possa intendere per memoria virtuale.
A cavallo di varie discipline, convergenti poi in game studies, si parla del videogioco come di un mondo virtuale (Taylor 2002). In sintesi, adottando una prospettiva fenomenologica, l’esperienza di un mondo virtuale è tale quando è accessibile e coerente nelle caratteristiche estetiche, meccaniche e comportamentali, e quando viene fatta da un soggetto e determinata da un sistema di relazioni tra più entità (Gualeni & Vella 2020). È tramite questa distinzione che si possono per esempio distinguere mondi virtuali digitali da mondi di finzione non fenomenologicamente coerenti o esperibili, come quelli dei sogni, delle allucinazioni, o di giochi non digitali come quelli cartacei.
Il fatto che ci interessa maggiormente è che per quanto l’esperienza di questi mondi possa essere immersiva, non diventa mai di completo assorbimento (salvo casi limite in cui il soggetto confonda la realtà con la finzione). In genere, quando si fa uso di un videogioco si è ben consapevoli della cornice entro cui questo uso avviene: si è cioè ben certi che si tratti dell’esperienza di un mondo regolato da dinamiche proprie, i cui spazi e i cui personaggi non sono reali.
Si parla in questo caso del coinvolgimento videoludico nei termini della costruzione di una doppia soggettività: quando videogiochiamo, siamo al contempo dentro e fuori dal mondo di gioco (Vella 2015, Kania 2017). L’idea di doppia soggettività ha una lunga storia transdisciplinare alle spalle e deriva tanto dagli studi sulla fruizione artistica quanto da quelli sulle performance teatrali. Anche in un medium ‘passivo’ come il cinema, infatti, il fruitore ha modo di essere coinvolto al contempo come osservatore esterno e come partecipante interno: per questo si viene presi da quanto accade sullo schermo, ben consapevoli però che si tratti di un film; in un mondo videoludico però chi gioca è agente, narrativo quanto fenomenologico, e cioè è un soggetto in grado di compiere azioni che modificano ciò che lo circonda.
Nei game studies recenti si viene a parlare di doppia soggettività per quanto riguarda il rapporto con l’avatar, la costruzione di una propria identità digitale, o l’esistenza di una progettualità esistenziale di tipo ludico che possa diventare riflessiva sulla realtà. Chi gioca fa ingresso in questi mondi e sta alle loro regole pur mantenendosi radicato al loro esterno, e in questo modo sperimenta e riflette su di sé proprio grazie alla creazione e adozione di una soggettività virtuale.
Se l’avatar ha una propria soggettività rappresentata, e dall’altra parte chi gioca ha una propria soggettività reale, il soggetto virtuale che si crea durante l’esperienza di gioco è costruito a partire da entrambe, e da entrambe limitato: è cioè determinato dall’orizzonte di possibilità del mondo di gioco, dalle sue caratteristiche narrative, e dai trascorsi del giocatore che vi fa ingresso. Le scelte che compiamo in gioco, o l’identità che ci costruiamo nel corso di una partita, sono determinate tanto dal nostro bagaglio di esperienze reali (e quindi dai nostri ricordi di giocatori e giocatrici) quanto dal bagaglio di esperienze del nostro avatar, nei panni di cui scegliamo di agire e in continuità col quale scegliamo di comportarci in gioco. L’idea di soggetto virtuale serve proprio a indicare come le azioni che il personaggio compie nel mondo di gioco non siano propriamente dell’avatar, né propriamente di chi gioca, ma si generino in uno scambio e adozione di prospettive che attinge da entrambi. Stesso discorso vale per la memoria: se ogni identità si costruisce sulla memoria, allora anche queste identità virtuali ibride si costruiranno su una ‘memoria virtuale’ ibrida, che nasce (e viene limitata) dallo scambio tra memoria reale e quella finzionale.
Ma cosa intendiamo per memoria?
Per quanto indichi generalmente la capacità di ricordare, l’idea di ‘memoria’ raccoglie concetti anche molto distanti tra loro: memoria è un “termine-ombrello” (Erll 2011), un costrutto discorsivo che si riferisce a facoltà diverse, o che talvolta indica metaforicamente manifestazioni completamente differenti. Memoria incorporata, collettiva, performata, spazializzata, digitalizzata: diventa tanto più difficile mettere ordine tra vari quadri teorici e metodologici quanto più l’idea di memoria torna a comparire nei contesti più disparati, e di conseguenza a essere osservata da discipline diverse.
Su una cosa sembra però esserci generale accordo in memory studies: la memoria, quando non è un processo organico (come nel caso di quella a breve termine o della working memory), è sempre mediata (Erll 2008). Inoltre, mediazione e ri-mediazione della memoria evolvono di pari passo con il progresso tecnologico, dal racconto orale al diario personale, dal monumento alla fotografia, dal social media ai cookies online. Si parla spesso, di conseguenza, di “intrinseca medialità della memoria” (Erll 2011, p. 114) o di ‘tecnologie della memoria’ (Van House & Churchill 2008) allo scopo di riflettere su come ai cambiamenti del nostro ecosistema mediale corrispondano anche, inevitabilmente, cambiamenti del modo in cui ricordiamo e concepiamo il nostro passato. Basti pensare al nostro rapporto con forme digitalizzate e sempre più accessibili (o impreviste, autonome, vedi Schwarz 2013) di memoria per capire quanto la nostra relazione col passato sia in costante mutamento: fioccano per esempio studi recenti su forme di memoria digitale o connettiva, come quelle mediate dalla rete, e dalla metafora della ‘tavoletta di cera’ si passa alla registrazione, al chip o al database.
Ma cosa succede alla memoria quando viene trasformata (come facoltà) e ripensata (come concetto) attraverso e grazie a mondi virtuali? Se ogni medium trasforma il nostro modo di rapportarci al mondo e a noi stessi, quali implicazioni hanno per i nostri ricordi i media che offrono esperienze ‘di mondo’, come i videogiochi?
Cerchiamo di capire anzitutto di quale tipo di memoria parliamo qui.
Da una parte, accediamo ai mondi virtuali videoludici come individui, inevitabilmente portando con noi i nostri ricordi individuali (e quindi grazie a sistemi di memoria episodica, semantica, procedurale e così via). C’è però da considerare che l’esistenza stessa di una memoria pre-culturale sia alquanto dibattuta in memory studies: per quanto ci si sforzi di estrarre i ricordi individuali dalla cornice socioculturale in cui si sono formati, da cui sono stati modificati e in cui vengono ricordati, sembra impossibile trovare un ricordo privo di riferimenti o matrici socioculturali. Se gli esseri umani sono creature sociali, in altre parole, sembra che non possano che ricordare socialmente. Più propriamente, allora, diremmo sì che accedendo a un mondo virtuale mediamo la nostra memoria individuale, ma laddove ‘individuale’ non si riferisce a qualcosa di eminentemente soggettivo, ma indica piuttosto la manifestazione soggettiva di cornici mnestiche intersoggettive.
Al tempo stesso, in quanto mondi artificiali, quelli videoludici non possono che partecipare, più o meno esplicitamente, alla cultura in cui vengono prodotti. Questo avviene non solo, com’è più evidente, dal punto di vista dell’intertestualità (ovvero un riferimento esplicito al passato finzionale dello stesso mondo narrativo – in letteratura viene definita vera e propria ‘memoria’ dei testi precedenti) ma, più spesso, per quanto riguarda tracce, caratteristiche rappresentazionali, elementi narrativi, processi ludici. Si possono interpretare in altre parole i mondi di gioco come intrinsecamente referenziali, affollati cioè da espressioni di memoria collettiva: icone mnestiche, immaginari, bias culturali – chi gioca esplora mondi le cui caratteristiche e le cui strutture sono frutto della rievocazione, più o meno cosciente da parte degli sviluppatori, di tracce mnestiche di vario tipo.
Cosa succede dunque alla nostra memoria quando videogiochiamo? Sulla base delle premesse di cui sopra, questa conclusione vuole proporre una tassonomia, schematica per semplificazione, di varie forme di memoria virtuale nel videogioco.
Riflettere sulla memoria virtuale rende un’idea di come a oggi la nostra identità sia non soltanto ‘frammentata’ ed ‘estesa’ dai media, ma in grado di produrre a sua volta forme identità virtuali in grado di mantenere poi una loro autonomia, e in questo caso di ricordare, produrre ricordi, essere ricordate. In questo senso, l’analisi del digitale (e dei mondi virtuali videoludici più nello specifico) consente di far luce tanto su oggettivazioni e incorporazioni di memoria quanto su come queste oggettivazioni rievochino, coi loro comportamenti e le tracce che lasciano, ricordi che non gli appartengono. Ovvero, ricordi di cui non potremmo liberarci neanche se volessimo e di cui a loro volta non potrebbero liberarsi neanche se volessero.
Bibliografia
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