«Per un’analisi che riguarda la percezione umana della realtà, non dovremmo prendere la realtà fisica come un esempio di comparazione, con cui misurare i fenomeni virtuali. Il virtuale è, piuttosto, un aspetto cruciale della realtà contemporanea.»
(G. Calleja, 2011, p. 183.)

Al fine di introdurre la tesi che voglio sostenere, farò un breve riferimento all’evoluzione che molti aspetti della quotidianità hanno subito a partire dal 2020, con l’arrivo della pandemia globale. Una delle conseguenze più immediate dell’epidemia da COVID-19 è stata sicuramente la costrizione nelle proprie abitazioni. L’impossibilità di uscire di casa si è andata a tradurre in cercare di ‘ricostruire’ la propria vita online: che sia un aperitivo con gli amici, una lezione all’università o una chiamata di lavoro, si è tentato faticosamente di riproporre molti aspetti tipici della quotidianità su piattaforme virtuali come Skype o Microsoft Teams. Tutto quel processo di interazione tra virtuale e fisico – in atto ben prima dei vari lockdown – sembra aver subito una decisa accelerazione, per cui gran parte delle vite si è dovuta spostare ‘per forza di cose’ nell’ambito digitale. In tutto questo, una delle industrie più proficue del tempo – quella videoludica – si è trovata improvvisamente a essere valvola di sfogo per milioni di persone che, costrette tra le mura di casa, ha approfittato del videogioco per scappare in altri luoghi fantastici, che potessero dare sollievo dalla monotonia e dall’ansia, due sentimenti caratteristici della vita ai tempi della pandemia globale. Una delle osservazioni più importanti potrebbe essere la seguente: molte persone che prima avevano rapporti occasionali con ambienti virtuali – che siano essi software come Skype o videogiochi come The Elder Scrolls: Skyrim – si sono ritrovate ad averci un rapporto continuativo, sempre più profondo, pena il rimanere esclusi dalla vita e dalla società, che ora per necessità si è cercata di ricostruire nella virtualità. Questa forzata familiarità con il digitale fa parecchio riflettere: cosa cambia nell’individuo se tutto quello che esperisce è largamente condizionato dalla presenza di schermi attraverso a cui si accede ad ambienti virtuali? Che si stia andando incontro a cambiamenti nel modo in cui la coscienza percepisce il mondo?

A questa domanda aveva cercato di rispondere, tra gli anni Venti e Trenta del XX secolo, un grande filosofo tedesco, vicino alla Scuola di Francoforte e molto interessato a come i media – tutti i media, comprese le droghe – potessero influenzare la percezione dell’individuo: Walter Benjamin (1892-1940). Benjamin lega irrimediabilmente la storia della percezione, quindi la storia dei diversi modi in cui l’umanità esperisce l’ambiente intorno a sé, alla storia dell’arte e della tecnica. Ogni innovazione in questi campi può essere considerata un medium, ossia un modo di strutturare e ristrutturare l’esperienza umana. Da questo presupposto, la tesi di Benjamin è a grandi linee la seguente: analizzando un artefatto che l’uomo produce in un periodo, che sia un dipinto, film o una foto – o come si vedrà un videogioco – si può arrivare a trarre conclusioni su come egli vede e interpreta il mondo circostante. Questa connessione tra tecnica e percezione prende il nome di innervazione ed è intimamente connessa all’idea che in epoche diverse l’uomo non percepisce l’ambiente nella medesima maniera. Tramite l’analisi dei media quindi l’essere umano può giungere a conoscere meglio sé stesso e il proprio presente.
 
Dal punto di vista pratico, Benjamin applica questa teoria nella sua contemporaneità, guardando al nuovo rapporto tra l’essere umano e l’immagine che, grazie a mezzi che ne permettono una riproduzione sempre più economica, sta invadendo ogni ambito della vita sociale, specialmente in forme di fotografie e film. In particolare, proprio la fotografia è stata fondamentale per portare l’immagine ‘alla mano’, a completa disposizione di tutti. Si prenda per esempio l’andare a contemplare un’opera d’arte. Benjamin illustra come nel passato questo processo fosse molto più simile ad un pellegrinaggio religioso: al fine di visionare la Gioconda (1503-1506), ci si doveva per forza recare al luogo in cui questa era esposta, non essendoci altri modi per fruirla, dato che questo quadro esisteva sotto forma di un unico esemplare originale e irripetibile. Tuttavia, l’avvento dei mezzi di riproducibilità tecnica dell’immagine tra XIX e XX secolo, ha permesso la sua riproduzione in serie: la Gioconda può essere comodamente visionata sotto forma di foto. Si passa quindi dal pellegrinaggio ad una visione ravvicinata, in cui l’opera d’arte può essere non solo fruita in foto, ma soprattutto può essere manipolata come più aggrada. Non è un caso se è proprio tramite una riproduzione che Marcel Duchamp disegna i baffi alla Gioconda in L.H.O.O.Q. (1919). Se prima l’opera d’arte guardava l’uomo con fiero distacco e questo non poteva fare altro che rimirarla da lontano in piena adorazione, sentendosi infinitamente piccolo davanti ad essa, ora il fruitore può andare a esercitare un’azione sull’immagine e modificarla come più lo aggrada, proprio per il fatto che adesso essa è ‘alla mano’, quindi a sua completa disposizione. Uomo e immagine diventano entrambi interlocutori attivi: ognuno è libero di influire sull’altro. La diffusione dell’immagine nella società va di pari passo con lo sviluppo di nuove capacità per interagire pariteticamente con essa. È mia opinione che questi processi di manipolazione dell’immagine siano fondamentali per la nascita di quei media che fanno dell’intervento del fruitore esterno un loro tratto fondamentale, capovolgendo completamente l’idea di una contemplazione immutabile. Sto parlando dei media interattivi, tra cui spiccano soprattutto i videogiochi.
 

Il libero agire sull’e nell’immagine di cui si è parlato, trova nel videogioco la sua apoteosi. Questa azione è resa possibile dalla figura dell’avatar, l’anello di congiunzione tra giocatore e mondo di gioco. Esso è essenziale al fine di materializzarne la volontà, permettendogli di vivere esperienze complesse. Un ambiente virtuale quando è in grado di recepire l’azione, l’agency, del giocatore può essere definito interattivo. Un ambiente virtuale diventa interattivo quando si arriva all’instaurazione di un metaforico dialogo in cui ad ogni azione portata a termine dal giocatore ne corrisponde un’altra portata a termine dall’ambiente stesso. Rapportarsi con il medium videoludico quindi non si riduce solamente a ‘trovarsi dentro un mondo virtuale’, ma consiste soprattutto nel fatto di vedere riconosciuta la propria influenza all’interno di questo: il sistema non può prescindere dall’azione del giocatore. Ricollegandomi alla conclusione del precedente paragrafo, i due interlocutori, uomo e immagine – intesa qui nell’accezione di mondo videoludico – risultano entrambi attivi: ognuno è libero di influire sull’altro. Il videogioco ne riconosce l’agire e risponde di conseguenza, dando l’impressione a quest’ultimo di fare parte di un vero e proprio ambiente digitale, con le sue leggi e le sue particolarità.
 
Dall’interazione si sviluppa un particolare senso di coinvolgimento, per cui quando il giocatore risulta pienamente indirizzato nel mondo di gioco – quindi quando ogni briciola della sua attenzione è rivolta verso quest’ultimo – egli finisce per incorporare, ‘per fare sua’ ogni dimensione di spazio e movimento che viene esperita attraverso l’avatar. L’apice di questo processo corrisponde ad un senso di presenza, per cui la mente e il corpo del giocatore si trovano perfettamente a loro agio nel mondo videoludico: egli non sarà solamente circondato da un estraneo luogo digitale, ma tramite l’avatar diventerà parte integrante di un ambiente in cui egli ha tutte le conoscenze per modificarlo e per agirvi al suo interno, arrivando a sentirlo come suo. Quando dico che un luogo virtuale diventa un ambiente virtuale, al secondo termine corrisponde una connotazione di familiarità, un sentimento che è più forte del generico ‘stare’ in un luogo digitale. Imparare a giocare ad un videogioco potrebbe infatti essere paragonabile a imparare a nuotare: dopo un periodo di “allenamento”, in cui si impara a conoscere l’acqua – che metaforicamente corrisponde al nuovo ed estraneo luogo che circonda il giocatore – si ha un periodo di ambientamento, in cui si diventa un tutt’uno con l’acqua stessa e si guadagna familiarità. La differenza sostanziale tra il mero stare in acqua e il nuotare, sta nel fatto che potenzialmente tutti riescono a fare la prima cosa, tuttavia per fare la seconda, e quindi sbloccare tutte le possibilità offerte da questo nuovo ambiente, occorre prima entrare in sintonia con l’acqua e poi imparare a reagire di conseguenza. Che da un allenamento percettivo si possa arrivare ad una sensazione di familiarità che culmina nell’abitare un ambiente virtuale?
 
 
Quando il giocatore si trova presente nel mondo di gioco, egli finisce per percepire di abitare tale mondo. In che modo? Prima di tutto questa sensazione non è affatto immediata: di per sé i mondi di numerosi videogiochi potrebbero essere dipinti come enormi labirinti, da cui è possibile uscire solo dopo aver preso la strada giusta, di per sé davvero poco coinvolgenti. Per questo l’essere labirinto va necessariamente dissimulato al fine di creare un coinvolgimento spaziale puro – ossia la sensazione di abitare – e di rendere il luogo dove ci si muove un contesto esplorabile, che deve prima di tutto possedere una specifica caratterista: la possibilità di perdersi. È proprio la sensazione di perdersi, di avventurarsi nell’ignoto, di scoprire cose nuove, che dissimula ‘l’essere labirinto’, contribuendo a creare luoghi in cui gradualmente si crea un senso di familiarità, fino a renderli ambienti che si percepiscono con quelle che potrei chiamare “forme dell’abitare”. La sensazione di abitare nasce proprio quando il giocatore finisce per ‘fare sua’ la mappa di gioco, per cui egli ora sa dove si trova e verso dove si sta dirigendo e per cui il mondo digitale diventa un qualcosa di conosciuto, di familiare. Si crea un senso di appartenenza che fa sì che esso venga percepito non come un generico spazio digitale, ma come un vero e proprio ambiente in cui vivere. Si passa dallo stare in una rappresentazione di uno spazio alla sensazione di appartenere, di abitare tale rappresentazione. Intendiamo quindi il concetto di presenza come la tappa finale di un metaforico processo di ambientamento per cui il giocatore si sente parte di un’altra realtà, in cui egli ha imparato ad agire secondo determinate regole. La sua impressione di vivere nell’ambiente digitale viene quindi a determinarsi dall’esercizio dell’agency, ossia di tutte quelle azioni che il sistema gli permette di eseguire e a cui esso risponde, inquadrando un personale senso di abitare un altro luogo.
Facendo un ulteriore passo avanti verso un’analisi fenomenologica del videoludico, dire che giocando ad un videogioco si ‘abita in un altro luogo’ equivale a descrivere l’interazione col medium usando una metafora. Facendo riferimento a uno studio proprio sull’uso delle metafore connesso alla strutturazione dell’esperienza condotto da George Lakoff e Mark Johnson:
 
«[…] i significati si originano dall’interazione tra linguaggio e esperienza vissuta, che si modificano vicendevolmente in un processo che è fondamentalmente metaforico. La metafora non è solo uno scostamento letterale dalla realtà; essa è creata a partire dal nostro senso di realtà e di conseguenza contribuisce a crearlo. Questo processo di mutua validazione è particolarmente rilevante nel caso delle esperienze più astratte, in cui le figure retoriche facilitano il processo mentale necessario per assimilare un’esperienza considerata rilevante.» (G. Calleja, 2011, p. 168)
 

In questo senso, l’assimilazione di esperienze astratte dalla dimensione immediatamente fisica, come quella videoludica, può avvenire esclusivamente tramite delle metafore. Lakoff e Johnson fanno capire che esse non hanno solo uno scopo esemplificativo, ma esse sono essenziali per dare una forma ben precisa a un concetto al fine che lo si possa apprendere. Le metafore, quindi, contribuiscono a dare una concretezza a fenomeni astratti e a renderli qualcosa che, ritornando al giocatore, permettono di inquadrare più facilmente la sua esperienza di vivere in mondi virtuali. Se per descrivere il rapporto con il videogioco si decide risultare calzante una metafora che fa riferimento ad un senso di abitare forse questa non è solo un modo per esemplificare il rapporto tra giocatore e videogioco, ma il suo uso presuppone tutta una serie di forme di strutturazione dell’esperienza che a loro volta fanno riferimento alla familiarità, alla quotidianità e alla vita di tutti i giorni. Sotto questa metafora si giocano le sorti di come l’esperienza videoludica viene intesa e costruita nella mente del giocatore.

Gli ambienti di gioco – specie quelli proposti nel genere RPG – hanno in comune con la quotidianità di essere un qualcosa di complesso, fatto di legami sociali, di significati culturali, di interazioni e di stimoli diversi, che, per questo, vengono compresi e costruiti secondo le medesime forme utilizzare per ordinare la vita di tutti i giorni. È possibile abitare nei videogiochi per il fatto che questi offrono delle esperienze in altri mondi che sono organizzate con i medesimi principi della vita di tutti i giorni, della quotidianità. Per questo motivo, queste possono essere ordinate dalla soggettività del giocatore con le medesime forme utilizzate per dare senso alla suddetta. Seguendo ancora Lakoff e Johnson, questi procedono a constatare il potere delle esperienze ricorrenti – largamente presenti in ambito videoludico – nella quotidianità, al fine di creare delle forme per capirla:

«Le esperienze ricorrenti portano alla formazione di categorie, che diventano le forme [Gestalt] esperienziali [per interpretare] le dimensioni naturali. Quelle forme danno coerenza alla nostra esperienza. Capiamo direttamente la nostra esperienza quando la vediamo strutturata coerentemente in termini di forme, che emergono dall’interazione con e nel nostro ambiente. Capiamo metaforicamente le esperienze quando usiamo una forma da un ambito dell’esperienza per strutturare l’esperienza in un altro contesto.» (Lakoff, Johnson, 2003 p. 226)

Un ulteriore passo in avanti per capire quella sensazione di abitare un ambiente digitale potrebbe stare nel relazionare questa con l’esperienza della vita di tutti i giorni, perché è a partire da forme esperienziali preesistenti – come quelle formate a partire da esperienze ricorrenti, che avvengono su base quotidiana – che si forgiano le categorie per comprendere il mondo circostante. È largamente d’aiuto in questo senso il termine incorporazione, proposto da Gordon Calleja per descrivere l’abitare l’ambiente virtuale come un’esperienza che avviene su due livelli distinti ma simultanei:

«Al primo livello, l’ambiente virtuale è incorporato nella mente del giocatore come parte delle sue immediate vicinanze, all’intento delle quali egli può muoversi e interagire. Al secondo livello, il giocatore è incorporato (nel senso di materializzato) in una singola location sistematicamente mantenuta nel mondo virtuale ad ogni punto nel tempo. L’incorporazione perciò opera su una doppia asse: il giocatore incorpora (nel senso di internalizzare o assimilare) l’ambiente di gioco nella sua coscienza mentre simultaneamente viene incorporato, tramite l’avatar, in quell’ambiente. […] l’incorporazione avviene quando il mondo di gioco è presente al giocatore mentre il giocatore è simultaneamente presente, attraverso il suo avatar, all’ambiente virtuale» (G. Calleja, 2011, p. 171)

Si può definire l’incorporazione in senso callejano come l’assorbimento dell’ambiente virtuale nella coscienza, che porta a quel senso di abitare, che a sua volta è supportato dall’avatar, che mantiene sistematicamente la presenza del giocatore in un singolo luogo. Calleja quindi vede l’esperienza del videoludico sia come un’assimilazione del virtuale nella coscienza, e vice versa della coscienza nel virtuale. L’incorporazione può venire definita come un’intensificazione del coinvolgimento soggettivo che si presenta come «una sintesi di movimento (coinvolgimento cinestetico) dentro un settore abitabile (coinvolgimento spaziale), assieme ad altri agenti (coinvolgimento condiviso), con narrazioni personali e programmate (coinvolgimento narrativo), i cui si provano sensazioni ed emozioni (coinvolgimento affettivo) , e con le varie regole e obiettivi del gioco stesso (coinvolgimento ludico)» (G. Calleja, 2011, p. 169-170). Si nota quindi che il termine tiene conto del mescolamento di sei dimensioni largamente sfaccettate che man mano vengono assorbite e incasellate nella coscienza del giocatore.

In questo modo quando diciamo che si abitano cyberspazi videoludici non dobbiamo più dividere gli stimoli provenienti dal mondo fisico e quelli proventi dal mondo digitale. L’enfasi ora viene posta sulla coscienza dell’individuo e gli stimoli recepiti da questa, non sulle differenze qualitative tra ambiente fisico e ambiente virtuale, e ciò rende possibile trattarli come un continuum. Il termine proposto da Calleja, quindi, è utilizzato per disegnare un profilo del giocatore, che, più che immergersi in un altro mondo, rivolge la sua attenzione allo spazio attorno a lui, recependo stimoli che possono provenire da ambienti diversi, digitali o fisici che siano, e incasellandoli in forme esperienziali dell’abitare che si adattano ad entrambi. Con questa affermazione non si vuole assolutamente affermare che mondo fisico e mondo virtuale siano la stessa cosa, ma si vuole semplicemente constatare che entrambi sono aspetti di quello che a tutti gli effetti, percepiamo, dal punto di vista fenomenologico, come una realtà in cui è possibile vivere e abitare. Il videogioco è quindi un supporto immaginativo che, in virtù della possibilità di esercitare l’agency, permette l’incorporazione del virtuale nel fisico e vice versa, creando una comunione di forme esperienziali tra queste due categorie, mettendo in crisi un’idea univoca di realtà come qualcosa di solamente di fisico, concreto e tangibile, dato che il mondo virtuale viene percepito dal giocatore, tramite l’avatar, nella medesima maniera: due ambienti in cui è possibile vivere, perché in entrambi si utilizzano le forme esperienziali tipiche della quotidianità.

In conclusione, il videogioco mette bene in chiaro qual è la condizione dell’individuo nella contemporaneità: il concetto di abitare adesso è estendibile anche agli ambienti virtuali, in virtù del fatto che il dualismo fisico-virtuale è stato fortemente ridimensionato. Il giocatore inizia un processo di familiarizzazione, il cui apice corrisponde ad un senso di presenza, per cui egli si trova perfettamente a suo agio nel mondo videoludico: egli non sarà solamente circondato da un generico luogo digitale, ma diventerà parte integrante di un ambiente, arrivando ad “abitare” al suo interno. È possibile abitare nei videogiochi per il fatto che questi offrono sì delle esperienze inedite in altri mondi, ma queste sono organizzate con i medesimi principi della vita di tutti i giorni. Vivere in un mondo digitale e vivere in mondo fisico vengono recepiti a livello percettivo in maniere simili, perché l’individuo finisce per incorporare lo spazio virtuale nella coscienza utilizzando le medesime categorie mentali che usa per abitare il mondo della vita di tutti i giorni. Quello che ho cercato di fare è stato reinserire il videogioco nella contemporaneità per constatare che la differenza tra fisico e virtuale è qualcosa di estremamente labile, per abituarci infine alla nostra multiforme esistenza su diversi piani di realtà, concreti o virtuali che siano.

Luca Secchi

Laureato, Università degli Studi di Milano

Bibliografia
  • Benjamin, W. (2012), L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, in Aura e choc. Saggi sulla teoria dei media, a cura di A. Pinotti e A. Somaini, Einaudi, Torino, pp. 17-49.
  • Benjamin, W. (2012), Piccola storia della fotografia, in Aura e choc. Saggi sulla teoria dei media, a cura di A. Pinotti e A. Somaini, Einaudi, Torino, pp. 225- 244.
  • Calleja G. (2011), In-Game. From Immersion to Incorporation, The MIT Press, Cambridge/Londra.
  • Lakoff G., Johnson M. (1980), Metaphors We Live By, University of Chicago Press, Chicago.