Questo articolo si pone come obiettivo il potenziale del medium videoludico in quanto prodotto culturale creatore di senso. Per fare ciò, si analizzerà il videogioco come pratica umana nella correlazione che esiste tra gioco, giocatore e società. Inoltre, servirà a dare un fondamento teorico per comprendere come il videogioco funzioni in quanto produttore di significato, per poi applicare suddetta teorizzazione al caso specifico del Giappone, in quanto Paese la cui immagine è spesso legata ai prodotti di cultura pop, tra i quali i videogiochi.
Per pratica si definisce un modo di fare qualcosa seguendo una determinata procedura. Il gioco come attività umana possiede una componente di codificazione della procedura molto forte a livello generale, sebbene non sia caratterizzante di ogni tipo di gioco. Il videogioco nello specifico, invece, possiede sempre un minimo grado di regolamentazione. Il solo interagire con la macchina presuppone una modalità di azione codificata (ad esempio il mouse di un computer interagisce in maniera univoca). In questo senso, si potrebbe associare al “cerchio magico” di Johan Huizinga, ossia il fatto che entrare nel gioco preveda l’attivarsi di una serie di regole, implicite o convenzionate (Huizinga, 1949).
In aggiunta a questa configurazione è opportuno ricordare che nel videogioco la regola si applica in relazione alla sua natura di prodotto culturale e commerciale. Questo comporta che si tratti di un medium esperito da persone diverse con sistemi di valori potenzialmente differenti. Tali individui si riuniscono in una pratica, giocare al videogioco, e si accomunano nell’approccio attraverso una procedura che li unisce creando una comunità aderente a suddetta procedura.
In altre parole, quello che si crea tra il giocatore e il suo interagire con il gioco è un habitus. Secondo Pierre Bourdieu, l’habitus è un sistema di modi di essere abituali, dunque ripetuti, senza un’intenzione necessaria di uno scopo determinato. Tale durevolezza si giustifica con la condizione sociale di partenza da cui si sviluppa, finendo col diventare una “seconda natura” del praticante (Bourdieu, 2003).
I diversi gradi di specificità di habitus producono una grande varietà di approcci possibili. Ciò che accomuna le differenze di pratica si potrebbe collocare, dunque, nello scopo della regolamentazione del gioco. In questo senso è possibile delineare un’altra caratteristica di pratica culturale che appartiene al videogioco. Il fatto di indirizzare il giocatore in una direzione non ha solo il fine pratico di far funzionare le meccaniche di gioco, ma anche di esprimere come il giocatore deve e non deve comportarsi.
Tale aspetto del videogioco è stato studiato da Gonzalo Frasca, che definisce la regolamentazione nei videogiochi come un insieme complesso di regole comportamentali la cui manipolazione ha la possibilità di veicolare ideologie. Nello specifico, lo studioso articola tali regole in una ripartizione su quattro set di regole. Quelle che risultano particolarmente interessanti per l’interazione sono le manipulation rules, ossia ciò che il giocatore può fare nel modello di gioco presentato, e le goal rules, ossia ciò che deve fare per vincere (Frasca, 2003).
Nel videogioco è presente una componente fortemente normativa, che di fatto impone al giocatore come relazionarsi. Tale componente si struttura come una regolamentazione che viene adottata dal giocatore, attraverso la pratica acquisisce un habitus alla regola, in altre parole la interiorizza.
Come giustamente fa notare Castronova, il cerchio magico di Huizinga non è uno spazio continuo ma è un cerchio “rotto”, non a tenuta stagna, che le persone attraversano più volte durante l’atto del gioco portando con loro anche i loro sistemi di valore e la loro visione del mondo (Castronova, 2005). Allo stesso modo, però, si può dire che avviene anche il procedimento inverso. Se non si possono limitare le interazioni al momento del gioco, i videogames costruiscono significati per il giocatore.
Solitamente nel videogame l’interazione con quanto è presente nel mondo di gioco avviene attraverso una figura di mediazione che fa le veci del giocatore, l’avatar. Secondo il tipo di relazione che si instaura tra gioco e giocatore esposto in precedenza, si tratta di un rapporto di fisicità traslata da uno stato ad un altro. In altre parole, la proiezione del sé nel mondo di gioco. Dunque, il giocatore durante la pratica ha la possibilità di utilizzarlo come mezzo per una costruzione identitaria interna al gioco.
Si potrebbe pensare questa relazione come una pratica del giocatore atta ad ottenere qualcosa, in altre parole una tecnica. Michel Foucault definirebbe un’interazione di questo tipo come una “tecnologia del sé”. Queste vengono definite come le azioni che un individuo compie tramite i propri mezzi o quelli forniti da altri per modificare qualcosa di lui o lei, a livello di corpo, mente o modo di essere per ottenere un determinato stato fisico, mentale o emotivo (Foucault, 1988).
Tuttavia, alcuni giochi permettono la modifica del proprio personaggio solo attraverso determinati metodi di ottenimento. Un esempio calzante è quello dei videogiochi MOBA: solitamente le caratteristiche dei personaggi possono essere cambiate solo con il prerequisito di vincere le partite. Allo stesso tempo il gioco fornisce delle possibilità di modifica estetica del personaggio, in questo caso però comprando degli aspetti alternativi e predeterminati dagli sviluppatori nello store del gioco, rinsaldando la relazione normativa del gioco nei confronti del giocatore. E rinforzando il passaggio di ideologie dal gioco al giocatore.
Tematiche di questo tipo sono solitamente esplorate in maniera esplicita nei serious games: per esempio in September 12th (Newsgaming.com, 2010) viene fatta una critica dell’armamento americano contro i paesi islamici a seguito dell’undici settembre. Il gioco consiste nel bombardare un villaggio mediorientale per uccidere i terroristi presenti. Tuttavia, a causa di una mancanza di precisione nel raggio delle esplosioni e nella lentezza di trasmissione dell’input (previste dalle regole del gioco) si finisce quasi sempre per colpire dei civili, che si trasformano a loro volta in terroristi. Una conseguenza di un gameplay di questo tipo è che diventa impossibile vincere il gioco seguendo le sue istruzioni; nelle sue meccaniche di gioco volutamente esasperate, September 12th è un esempio efficace del fatto che il seguire la regolamentazione imposta dal gioco non necessariamente fornisce il risultato sperato dal giocatore.
A questo proposito, Ian Bogost sottolinea come il gioco crei una correlazione tra la percezione del giocatore delle regole e come percepisce il mondo. In questo senso, il gioco presenta un contenuto al giocatore dalle forti potenzialità ideologiche (Bogost, 2006).
Alla luce di questa relazione si può dire che il gioco traspone attraverso il giocatore un cambiamento dal mondo virtuale al mondo reale, rendendo tale esperienza parte del sé anche senza bisogno di ricorrere all’avatar. In un certo senso il giocatore diventa “avatar” del gioco, o meglio del suo contenuto.
Tuttavia la relazione di modifica tra giocatore e gioco non ha come effetto una modifica del mondo, se escludiamo quella dell’individuo in quanto parte del mondo. Il mondo al di fuori del videogioco si compone infatti di una varietà di elementi non necessariamente afferenti alla sfera dell’esperienza personale.
Se vi è una modifica del sé attuata attraverso il gioco che si riporta poi nell’esperienza fisica del giocatore attraverso mutamenti di pensiero o percezione, la modifica permane e si traspone nell’esperienza al di fuori del gioco. Se quindi prendiamo l’esperienza come processo epistemologico per cui la realtà è tale da essere vera solo se condivisa, una percezione comune potrebbe invece risultare in una modifica delle caratteristiche del mondo.
È possibile associare questo tipo di relazione a quanto sostenuto dal filosofo Nishida Kitarō riguardo la relazione che esiste tra mondo e soggetto e al suo svolgersi in atti di creazione (poiesis) e pratica (praxis). Secondo Nishida, un atto di poiesis riguarda sempre anche la praxis, e allo stesso modo ogni atto di praxis costituisce una poiesis. Questo dipende dal fatto che la pratica è un’azione che crea cose al di fuori del corpo e allo stesso tempo un’estensione del corpo stesso (Nishida, 1978-1980).
Se trasponiamo questo concetto nel mondo di gioco, possiamo dire che l’azione stessa di giocare ad un videogioco, è una poiesis che avviene tramite la praxis del giocatore. Tale praxis si fonda sull’adozione della modalità di approcciarsi al gioco, che dall’apprendimento al completo assorbimento della tecnica costituisce appunto una pratica. La finalizzazione del gioco, nella costruzione data da Nishida, costituisce quindi allo stesso tempo un atto di auto-formazione del giocatore, in altre parole viene modificato, e tale modifica ha inevitabilmente un effetto nella sua vita al di fuori del gioco.
Nishida ha esposto questo concetto in relazione all’agency che l’uomo ha sul mondo e viceversa. Funzionando in maniera identica nel rapporto tra giocatore e videogioco, si può dire che l’individuo interagisce sia con il mondo fisico sia con il mondo virtuale attraverso il suo corpo ed è quindi legato in entrambi i casi ad ambiente e coscienza.
Un processo conoscitivo così strutturato si sviluppa in interrelazione con il mondo, o meglio si conosce con un mondo che è interattivo con il sé. Il processo conoscitivo dell’individuo viene definito da Nishida come “intuizione attiva”, ossia che gli esseri umani danno senso alle cose attraverso l’interazione con esse. (Nishida, 2001). In altre parole, fare qualcosa è conoscere qualcosa.
Il videogioco ha i presupposti per creare una realtà a partire dalla modifica della percezione individuale. Si può dunque arrivare ad una costruzione di senso condivisa da più di un giocatore. Allora, il cambiamento a livello di visione del mondo da parte di un alto numero di persone rende tale cambiamento accettato all’interno di una fascia potenzialmente molto ampia. Questo si traduce, tendenzialmente, nell’acquisizione di uno status di ‘realtà’ sempre maggiore, al punto di poter uscire dai limiti di una realtà per un gruppo di persone (i giocatori) per spaziare nella realtà del mondo in sé per sé.
Quello che emerge è che il confinamento del medium nella sfera della simulazione rischia di lasciare fuori la relazione gioco-giocatore-mondo, che vanno al di là della rappresentazione. È allora necessario definire quale sia l’influenza culturale del prodotto videogioco nell’esperienza di chi lo pratica e in che misura questa sia presente al suo interno. Tale influenza è da localizzarsi esattamente nel suo essere un prodotto culturale dotato di un’intenzione autoriale da parte di chi lo crea, che comporta l’elaborazione di un set di valori inevitabilmente trasmessi al giocatore nella sua pratica videoludica. Ritorna quindi l’immagine del cerchio magico “rotto”, in cui la separazione tra “reale” e “digitale” non ha più senso di esistere. Per comprovare quali siano gli effetti della triplice relazione presentata sula veicolazione e costruzione di messaggi ideologici, andiamo ora ad analizzare i due case studies scelti per lo scopo.
Ghost of Tsushima (Sucker Punch, 2020) è un videogioco action-adventure stealth, sviluppato dalla software house americana Sucker Punch e pubblicato da Sony Interactive Entertainment pubblicato in esclusiva su PlayStation 4 e successivamente su PlayStation 5. La trama ruota attorno alle vicende dell’invasione mongola dell’isola di Tsushima nel 1274, durante il periodo Kamakura (1185-1333), e in particolare del samurai Jin Sakai, nipote del signore feudale dell’isola, Lord Shimura. Dopo la sconfitta dell’esercito dello zio e la cattura di quest’ultimo, Jin si troverà a dover abbandonare i metodi di combattimento appresi dallo zio (basati sull’affrontare i nemici a viso aperto e senza indietreggiare) per adottare tattiche di guerriglia così da salvare lo zio e successivamente l’isola intera, anche a costo del suo “onore”.
Il gioco è principalmente noto per la sua componente estetica estremamente curata: a livello di impostazioni grafiche, troviamo la “modalità Kurosawa”, citazione al più famoso regista giapponese di film sui samurai. Questa attiva un filtro in bianco e nero, riproducendo l’effetto delle vecchie pellicole. Lo stesso richiamo al genere si riscontra nella modalità in cui vengono gestite le cutscene, abbondantemente utilizzate e in particolare nei duelli, la cui “messa in scena” presenta un richiamo davvero evidente ai film di samurai. A questo si aggiunge la variegata personalizzazione del personaggio, che dispone di svariati vestiti, armature, cappelli ed elmi, ciascuno personalizzabile con diverse colorazioni e diversi stili.
Nel gameplay vero e proprio, il focus sull’estetica si denota dalla costruzione stessa dell’open world del gioco e da come il giocatore interagisce con esso. Escluse le missioni, in cui l’open world viene limitato da “tunnel” in cui si deve svolgere l’azione, Ghost of Tsushima invoglia il giocatore al free roaming attraverso l’assenza della minimappa. Questa è sostituita dalla meccanica del “vento guida”, che indica al giocatore la location della missione selezionata, e dei trigger secondari sotto forma di fauna da seguire. La natura esplorativa e le modalità di guida hanno lo scopo di mostrare un ambiente estremamente estetizzato e gradevole per lo sguardo. Uno degli obiettivi degli sviluppatori è stato quello di creare un ambiente che permettesse al giocatore di vagare liberamente nella mappa senza elementi di disturbo sullo schermo per godere di un ambiente “bello ed esotico” (Williams 2017). Quello che risulta, per il giocatore, è la rappresentazione di un luogo reale, il Giappone storico, in chiave estetica. Questa, tuttavia, non si ferma alla semplice immagine.
Un primo livello di romanticizzazione è nella trama e nella caratterizzazione dei personaggi in relazione ai loro valori. L’intera storia si fonda sul rapporto conflittuale del protagonista Jin con il codice d’onore insegnatogli dallo zio: per tutto il gioco, il protagonista è perseguitato dal senso di colpa per le sue azioni, indegne di un samurai. Cosa eticamente sia un “samurai” viene sottolineato in continuazione dai dialoghi del gioco, in particolar modo dai soliloqui di Jin e dalle scene flashback in cui il protagonista ricorda gli insegnamenti dello zio. Il cambiamento interiore del protagonista, che inizia a riflettere su come la morale sia di minore importanza rispetto al salvare l’isola, avviene in un world setting in cui per un samurai non è ammissibile una rottura della “Via del guerriero”.
Qui sorge la prima problematica: la creazione del concetto di “Via del guerriero” (Bushidō in giapponese) nasce molti secoli dopo l’ambientazione della storia di Jin, e a dire il vero molto dopo la fine della classe sociale dei samurai. È infatti stato elaborato per la prima volta nel 1900 con la pubblicazione del libro Bushidō: The Soul of Japan di Nitobe Inazō, scritto originariamente in inglese per dare un’immagine del Giappone all’estero e successivamente reimportato in patria.
Una seconda problematica nell’immaginario del gioco è riscontrabile nella rappresentazione religiosa. L’intero sistema di guida del gioco, dal vento agli animali, è sempre rappresentato nella narrazione del gioco come un fenomeno legato a entità spirituali di varia natura. Così il vento nel gioco è la manifestazione spirituale dell’isola che vuole la vittoria di Jin e la sconfitta dei mongoli. Oppure, le volpi che guidano il giocatore ai santuari del dio volpe Inari. Un’interazione tra gioco e giocatore così costituita crea in quest’ultimo una sensazione di collegamento mistico tra lui e il mondo di gioco. Si tratta in questo caso di un evidente rimando al collegamento natura-divino associata allo Shintō. Nella sua modalità, però, il gioco pone l’accento sull’aspetto dello Shintō come religione mistica, altro paradigma della rappresentazione esotista.
Persona 5 (Atlus, 2016) è ad oggi l’ultimo videogioco della serie di JRPG Persona (1996-), nato come spin-off di un’altra serie JRPG, Megami Tensei (1987-). È sviluppato e distribuito da Atlus, una sussidiaria della SEGA. Persona 5 è nato come esclusiva per Playstation 3 e Playstation 4, e possiede una riedizione ampliata e migliorata chiamata Persona 5 Royal (2020). La trama del gioco, come altri della serie, ruota attorno ad un gruppo di teenager che devono salvare il mondo da un’imminente catastrofe attraverso l’utilizzo della manifestazione della loro volontà, chiamata Persona. In Persona 5, il protagonista (il nome viene deciso dal giocatore) è uno studente trasferito a Tōkyō dopo un’ingiusta accusa di aggressione. Lì scopre l’esistenza di un mondo alternativo formato dalla coscienza delle persone, il “Metaverso”, e di dover impedire il tracollo del mondo. Conoscendo poco per volta altri ragazzi emarginati, insieme alle loro Personae, il protagonista forma un gruppo di “ladri fantasma”, con lo scopo di rubare i desideri distorti delle persone e risanare la società giapponese, colma di ingiustizie sociali.
Il gameplay di Persona 5 si caratterizza per la sua estrema complessità, dovuta dalla grande varietà di attività presenti nel gioco e dal fatto che unisca in sé uno strategico a turni e un gioco di ruolo. Una sua caratteristica peculiare è la presenza di un sistema di periodizzazione estremamente dettagliato, che oltre a scandire il passare dei giorni scandisce anche il passaggio tra giorno e notte e quello delle stagioni. Vi sono inoltre riferimenti alle festività nel corso dell’anno e la presenza di eventi metereologici di tipo randomico. Ciascuno di questi aspetti influenza il mondo di gioco e come il giocatore può interagire con esso. Tra le attività regolate da questo sistema ci sono quelle legate al Metaverso, le attività per migliorare le caratteristiche sociali del personaggio e l’interazione con gli altri personaggi del gioco.
Mentre l’obiettivo principale nel Metaverso è l’esplorazione dei dungeon per avanzare con la trama principale, gli obiettivi delle abilità sociali e dei rapporti con le altre persone è di aumentarle per ottenere abilità e power up nel Metaverso. Questo, in relazione con le limitazioni di alcune azioni per giorno e delle attività non facoltative come andare a scuola, determina che dopo aver finito il gioco al giocatore non sia riuscito di ottenere il massimo di affinità nei rapporti e di livello delle abilità sociali, vedendosi costretto a scegliere gli eventi a cui dare priorità. Tale problematica viene ovviata dal sistema di salvataggio del gioco. Si tratta infatti di un sistema di salvataggio automatico con la possibilità di salvare la partita in diversi slot, il che permette al giocatore di ritornare sui suoi passi e rigiocare delle sezioni di gioco scegliendo un salvataggio antecedente all’azione che non si vuole ripetere.
Secondo il developer del gioco Hashino Katsuno, il gioco è nato con l’obiettivo di essere un “viaggio nel cuore delle persone”, ossia che il tema portante è la rivoluzione interiore, sottolineando come quello a cui fa pensare il gioco è che “non possiamo andare avanti in questo modo”. Hashino sottolinea anche come sia stata inclusa una testimonianza della società contemporanea come parte essenziale del tema e della trama del gioco (4GAMER, 2016).
La dichiarazione di intenti del developer di Persona 5 è evidente all’interno del gioco. La società giapponese contemporanea rappresentata nella trama di Persona 5 è un coagulo di ingiustizie nei confronti dei più deboli e di pressione sociale sui giovani. Le uniche figure che si ribellano all’ingiustizia della società sono i giovani protagonisti e i loro amici, con poche eccezioni di adulti che perorano la loro causa. L’ignavia nei confronti delle ingiustizie in particolar modo, si può applicare a tutti i personaggi che non sono degli outsider come il protagonista e i suoi alleati. Questo è sicuramente un rimando a un’immagine che si tende ad associare alla società giapponese, ossia a quella del mantenimento del wa (armonia, pace) a tutti i costi.
Nell’interazione del giocatore, la pressione sociale sul giovane protagonista è percepita dal giocatore nel dover seguire i ritmi estenuanti del gioco, che richiede un’attenta pianificazione al giocatore per riuscire ad ottenere i potenziamenti necessari e non rischiare di rimanere bloccato nel gioco. Allo stesso modo, l’ingiustizia sociale, oltre ad essere rappresentata nello storytelling e nella rappresentazione del Metaverso (il riflesso dell’animo delle persone), è il gioco stesso a fornire la definizione di sé stesso come “ingiusto”, proprio all’inizio del gioco.
L’intenzione autoriale di Persona 5 è di essere una critica sociale rivolta ad un pubblico di giovani, un messaggio di ribellione alle ingiustizie sociali e una chiamata alla presa di responsabilità contro il disinteresse alle problematiche del paese. Non è però possibile definire Persona 5 esente dalle rappresentazioni culturali di tipo stereotipico.
Nella rappresentazione del Giappone contemporaneo il gioco lascia a volte da parte la sua visione critica per mantenere una rappresentazione più conforme alla norma. In particolar modo, le raffigurazioni che sembrano risentire maggiormente di un appiattimento risultano essere quelle legate alla rappresentazione del femminile e della relazionalità affettiva. La prima subisce un evidente caduta negli stereotipi di genere del genere JRPG, tale per cui le protagoniste femminili sono a volte rappresentate secondo standard di bellezza stereotipati e subiscono rappresentazioni sessualizzate in nome del fan service.
Per quanto riguarda la relazionalità, Persona 5 presenta diverse opzioni di amore romantico possibile per il protagonista. Questo si può sviluppare con più personaggi femminili per volta e inoltre, seppur minorenne, anche con personaggi femminili adulti. Al contrario, non gli è permesso intraprendere nessuna relazione con uomini, fornendo una visione stereotipica di normatività di genere tale per cui se non si intraprende una relazione eterosessuale non si può intraprendere nessuna relazione (Shepard, 2017).
Quello che ne risulta è che il giocatore interagisce con il gioco con delle limitazioni non indifferenti a livello di rappresentazione della società e dell’individuo, in un mondo di gioco che presenta delle stereotipizzazioni riguardanti delle categorie subalterne. Il tutto sotto la rappresentazione principale, ossia quella della critica alla società giapponese.
Il 7 Settembre 2020, un tifone ha colpito l’isola di Tsushima, provocando la distruzione di un torii (cancello tipico dei templi Shintō) del tempio di Watatsumi, uno dei più importanti dell’isola. Uno dei membri del tempio, Yuichi Hirayama, ha lanciato una campagna di crowdfunding per la ricostruzione del tempio, con l’obiettivo fissato a 5.000.000 Yen. Grazie alla popolarità del gioco, il crowdfunding è arrivato a 27.000.000 Yen, superando abbondantemente l’obiettivo, grazie alle donazioni da tutto il mondo dei fan di Ghost of Tsushima (Jones, 2021). Nel Marzo 2021, l’isola di Tsushima ha annunciato che il Game director Nate Fox e il direttore creativo Jason Connell sarebbero stati resi ambasciatori del turismo a vita, annunciando allo stesso tempo l’impegno della municipalità di collaborare con Sony ad una nuova campagna turistica basata sul gioco (Scullion, 2021).
Questi due eventi sono esemplificativi di un effetto del gioco nel mondo reale: da un lato abbiamo l’ingresso di una comunità virtuale e globale che influisce concretamente su un contesto reale e locale. Dall’altro abbiamo un contesto politico locale che non solo affida a persone straniere il titolo di ambasciatore culturale (di fatto rendendoli ambasciatori nel mondo della cultura dell’isola), ma che ripensa interamente la sua strategia di management dell’isola con lo scopo dichiarato di renderla una meta turistica globale, sfruttando il fenomeno del Game Tourism attraverso l’immaginario cool del Giappone esotico.
Persona 5 non possiede dei risultati altrettanto eclatanti. Il web in questo senso risulta la modalità più efficace in cui si nota la sua influenza rappresentativa. Sia nei gruppi di fan sia negli articoli che trattano le tematiche del gioco, il web è disseminato di opinioni degli utenti del gioco, la cui tendenza generale potrebbe essere riassunta nel pensiero che il gioco rappresenta dei lati del Giappone di cui non si è solitamente a conoscenza, dando la possibilità di conoscere un Giappone che in genere rimane nascosto dietro il velo della sua immagine ‘pop’ e idealizzata (McCarty, 2017).
La presenza di una critica del paese non necessariamente confligge con la sua immagine cool, ma ne diventa anzi parte integrante. Nel suo libro Cool Capitalism, McGuigan sottolinea come il capitalismo contemporaneo incorpori anche le critiche al sistema, rendendole mercificabili e rigirandole a vantaggio del capitalismo stesso, rendendo inoltre le problematiche sociali implicitamente risolte in quanto mostrate (McGuigan, 2009). A seguito del terremoto del Tōhōku nel 2011, il governo giapponese ha ampiamente promosso la rappresentazione culturale del paese. In quegli stessi anni, Persona 5 era in fase di sviluppo come videogioco ambientato in tutto il mondo, per poi cambiare il suo setting sulla sola Tōkyō a seguito di questo evento, come affermato dallo stesso Hashino (4GAMER, cit.).
Ciò che i due giochi rappresentano è in definitiva il Giappone come paese da vedere favorevolmente, con una cultura storica affascinante e un presente problematico ma in via di risoluzione. Tali rappresentazioni sono quello che si definisce “Cool Japan”. Questo concetto a sua volta fa parte dell’insieme di rappresentazioni e immaginario che fanno parte della politica culturale contemporanea, il cui obiettivo è l’ottenimento di potere non con la legge o l’imposizione ma attraverso la percezione degli individui. Questo tipo di potere è definito da Foucault “Soft Power”, il potere ‘morbido’ che non impone ma convince (Foucault, 1995).
Alla luce del tipo di relazionalità che si instaura tra gioco, giocatore e mondo, si traggono le seguenti conclusioni. Il videogioco in quanto media ha un potenziale enorme di veicolare ideologie che arrivino allo spettatore. Nel caso di videogiochi che sono media ad alta diffusione, i cosiddetti “Tripla A”, questo si traduce in un impatto considerevole sulla percezione dei suoi giocatori. Questa, a sua volta, si ripercuote sulla società, il mondo in cui i giocatori vivono.
Si potrebbe definire “retorica procedurale”, la veicolazione di messaggi ideologici attraverso la proceduralità del videogioco (Bogost, 2007). Questa però non basta a spiegare il cambiamento della percezione negli individui.
In un saggio successivo, Bogost ritorna sulla sua teoria originaria:
“Around 2010, I started to realize an inconvenient truth: that in order for people to be persuadable by games, it wasn’t enough to have a few interesting games that represented the potential for a revolution in knowledge and understanding […] an entire social practice must be cultured around the form, involving habits of time and attention. The same is true for games for news, politics, education, or anything else. And yet, you can’t will that sort of scale. The rest of the media environment would have to support it”
[I. BOGOST, “Persuasive Games, A Decade Later”, in Persuasive Gaming in Context, ed. T. de la Hera (et al.), Amsterdam UP, 2021, pp. 31-32.]
Bogost sembra parlare di un potere persuasivo mediato, ammorbidito, che non può fare a meno di passare dalle dinamiche di soft power.
Una definizione migliore potrebbe essere Soft Procedural Rethoric, un tipo di retorica procedurale che non solo comunica ideologia con strumenti retorici attraverso un percorso autore-fruitore ma che inserisce il discorso retorico in un interscambio tra cultura, produttore di cultura e consumatore, ciascuno interdipendente e creatore di senso l’uno per l’altro, in cui l’intenzione rappresentativa si alterna alla costruzione di significato presente nel contesto di creazione del gioco.
Quindi, considerare il videogioco in quanto strumento di rappresentazione culturale in relazione alla complessità del mondo contemporaneo stando attenti a non cadere nella stessa trappola della semplificazione criticata da Bogost, per cui la veicolazione di significato è un’intenzione evidente e fortemente dichiarata. I due giochi portati ad esempio, in definitiva, si somigliano nel costruire la parte più densa del loro apparato ideologico nel non detto, nella parte che emerge non secondo quanto viene comunicato ma in quanto viene lasciato fuori dalla rappresentazione e diventa interazione tra questi e i giocatori.
Bogost conclude il suo saggio interrogandosi su come il gioco possa essere uno strumento di conoscenze complesse partecipando, e anzi alterando, l’apparato dei media che tende a distanziarsi o a distruggere tali conoscenze. Una maggiore sensibilizzazione sul valore culturale del videogioco, che spesso ancora manca nei grandi bacini di utenza, potrebbe essere un primo passo in questa direzione. Allo stesso modo, una maggiore coscienza sulla questione dell’autorialità come facente parte del contesto sociale, culturale ed economico sarebbe auspicabile per far sì che l’analisi del videogioco in quanto prodotto culturale non rischi di trovarsi relegata alla reiterazione di cosa il prodotto culturale è, ma si spinga nella direzione di cosa questo potrebbe essere.