Il presente articolo aspira a suggerire un possibile percorso di ricerca in larga misura inedito per quanto riguarda l’ambito del videoludico, e che ci si augura possa prospettare ai designers nuove sfide creative, realizzando così una sinergia tra teoria e pratica che favorisca l’arricchimento dell’esperienza estetica offerta dal medium. Nello specifico, ritengo assai proficuo domandarsi se e come il videogame, in qualità di linguaggio espressivo, possa veicolare pratiche metalinguistiche atte a far assumere al giocatore un atteggiamento più riflessivo e critico nei confronti del testo ludico e della stessa attività di gioco.
Ovviamente, in questa sede mi sarà possibile solo tratteggiare alcune direttrici teoriche e offrire una introduzione al tema che necessiterà di ulteriori approfondimenti e di una sistematizzazione più accurata; tuttavia, l’auspicio è che la sintesi che questo articolo fornirà possa rappresentare un efficace punto di partenza per un campo di riflessione che in futuro potrebbe rivelarsi estremamente florido. Di seguito procederò a chiarire cosa intendo per metalinguaggio nello specifico caso del videogame, discutendo in particolare a quale modello estetico gli esempi esistenti di design videoludico (numericamente sparuti rispetto alla gran mole della produzione, ma non per questo meno nobili) si contrappongano in maniera più o meno esplicita.
Il metalinguaggio come concetto teorico specifico ha avuto il proprio luogo di elaborazione privilegiato nell’alveo delle teorie letterarie, e ancor più di quelle cinematografiche dove, a partire dagli anni ’60 del Novecento e sulla scia della rivoluzione di linguaggio aperta dal Neorealismo italiano e dalle teorizzazioni formaliste di André Bazin (2018), si è assistito all’emergere di movimenti e tendenze nazionali e trans-nazionali contraddistinti dalla messa in atto di forti istanze metalinguistiche. Gli autori appartenenti alle varie nouvelle vague nazionali, mossi da un urgente desiderio di rottura con le tradizioni estetiche del passato, avrebbero sperimentato impieghi anticonvenzionali del linguaggio cinematografico, metalinguistici in quanto orientati a problematizzare l’atto registico, rivelando la presenza dell’apparato di ripresa, di un ‘narratore’ che organizza e manipola gli eventi schermici, e così investendo la pratica cinematografica stessa di una interrogazione radicale sul proprio senso e la propria capacità comunicativa. Particolarmente calzante resta, ad esempio, la metafora proposta del Metz del “ripiegarsi del testo su se stesso” (Metz 1995), in un gioco metatestuale che fa sì che il film, nella sua forma compiuta e definitiva, conservi traccia del suo stesso farsi, del processo creativo che lo ha portato a compimento.
Ovviamente, quanto detto rappresenta una semplificazione concettuale, resa necessaria dall’impossibilità di render conto in poche righe di un contesto così variegato e complesso, e finanche contraddittorio: non tutto il ‘cinema d’autore’ degli anni Sessanta può dirsi metalinguistico, né il metalinguaggio ha di per sé a che fare solo con la messa in discussione dell’atto artistico (aspetto, quest’ultimo, su cui tornerò più avanti). L’aspetto che è importante tenere in considerazione è però la funzione più o meno esplicitamente alternativa e “politica” attribuita al metalinguaggio nelle sue forme più radicali e non compromissorie, nel senso della messa a punto di pratiche che si offrissero come contraltare ai modelli estetici imperanti, di cui si aspirava a mettere a nudo la falsa innocenza. Nello specifico, il bersaglio era l’idea di “trasparenza” mimetica propria del découpage classico (originariamente hollywoodiano ma poi diffusosi capillarmente in ogni nazione in cui il cinema costituisse una industria ben radicata), con il suo montaggio invisibile al servizio della chiarezza espositiva del racconto e con la negazione della macchina da presa come agente spazialmente situato produttore dell’immagine. Sulla base di tale dialettica (forse oggi resa obsoleta dall’inarrestabile esplodere della forma cinematografica in miriadi di nuove configurazioni estetiche, ma storicamente importante), la mia domanda è se sia possibile individuare anche nel terreno del videoludico lo strapotere di un modello estetico, e se la valorizzazione di istanze metalinguistiche possa aprire traiettorie inedite per l’esperienza mediale in analisi.
Ritengo che tale dominanza possa essere rinvenuta in ciò che definisco ‘estetica della presenza’: il reiterato sforzo di portare il giocatore ad avvertirsi fisicamente presente all’interno dell’universo ludico, sia attraverso l’avatar che, nella VR, con tutto il proprio corpo. Quello di presenza è uno dei concetti chiave per gli studi sugli ambienti virtuali, e ha prodotto una mole talmente vasta e variegata di accezioni del termine che è impossibile giungere a una definizione univoca che le accolga e sintetizzi tutte (Lombard e Jones, 2015). In rapporto all’esperienza videoludica faccio riferimento essenzialmente alle cosiddette teorie della “Spatial Presence” (Hartmann et al. 2015), che studiano la capacità delle tecnologie ‘immersive’ di canalizzare la percezione e le risorse cognitive del fruitore in direzione dell’ambiente virtuale, inducendo la sensazione di trovarsi all’interno di esso fisicamente. A mio giudizio, per capire come si generi fattualmente l’effetto di presenza, è necessario porre l’accento sulle qualità formali delle interfacce grafiche, e in particolar modo sulla tendenza a costruire rappresentazioni tridimensionali di spazi fisici, che costituisce lo standard audiovisivo comune alla stragrande maggioranza dei testi videoludici.
Bisogna capire che il passaggio da prospettiva bidimensionale a tridimensionale, reso possibile dall’avvento e dall’ininterrotta implementazione dei motori grafici a modellazione poligonale, ha apportato una vera e propria rivoluzione estetica per l’esperienza videoludica, poiché il videogioco tridimensionale perde “la relazione vincolante con il piano per guadagnare in via definitiva lo spazio” (Fulco 2005: 98). L’universo narrativo di un videogame a scorrimento orizzontale sarà percepito, spiega Fulco, come un percorso, contraddistinto cioè da ben precisi punti di partenza e di arrivo; laddove l’immagine tridimensionale si riconfigura, invece, in un ‘mondo’ da esplorare in ogni direzione e con cui stabilire, potenzialmente, interazioni molteplici e imprevedibili.
Tale passaggio produce un cambiamento nella disposizione cognitiva e percettiva del giocatore, nel senso che solo quando si interagisce con un testo che si offre nella forma di un ambiente “denso” ed esplorabile in ogni direzione si può ingenerare un’effettiva illusione immersiva e presenziale. È utile citare la distinzione proposta da Nitsche (2008) tra i videogiochi “a spazialità ridotta” (riducibili con buona approssimazione alle opere in 2D) e quelli che offrono la navigazione di ambienti in 3D: in quest’ultimo caso la specifica articolazione tra dimensione presentazionale (l’apparenza tridimensionale dell’immagine) e funzionale (la capacità del giocatore di esercitare una agency in grado di dar luogo a trasformazioni nella configurazione del mondo di gioco) del testo favorisce l’effetto di presenza spaziale, mentre nella prima circostanza “i giocatori sono immersi non nel mondo di gioco, ma nella pratica di gioco stessa” (ivi: 204).
Ma perché ciò avviene? Ritengo che la chiave di lettura più proficua per capire tali fenomeni sia fornita dall’ecologia della percezione, disciplina fondata da James J. Gibson (2014 [1979]) e orientata a riconcettualizzare la nostra relazione percettiva con gli ambienti a partire dal riconoscimento della natura incarnata della posizione che occupiamo nello spazio fisico. Non mi è possibile qui procedere a una disamina dettagliata dei principi dell’approccio ecologico alla percezione, ragion per cui, ai fini del tema di questo articolo, basti fare riferimento al fatto che se si postula la soggettività dell’animale esperiente come incarnata, allora viene a cadere tanto la metafisica e logica distanza tra percipiente e percepito quanto il predominio della facoltà visiva sugli altri sensi, entrambi retaggi del razionalismo di matrice illuministica. Piuttosto, il corpo come entità materica è sempre immerso nell’ambiente, lo percepisce con tutti i sensi e da direzioni multiple, e soprattutto senza occupare una ideale posizione di predominio su di esso. Gli elementi – sia animati che inanimati – presenti nello spazio immediatamente circostante il corpo generano ciò che Gibson chiama affordances, ossia possibilità per l’azione elicitate dallo specifico “sistema animale-ambiente” (Stoffregen 2003) istituentesi dall’incontro tra le proprietà fisiologiche di una certa specie animale (ma anche di singoli esemplari di una medesima specie) e le caratteristiche degli oggetti e dei corpi con cui quest’ultima entra in relazione spazialmente. Pertanto, nella teoria di Gibson la centralità del corpo si combina con la centralità dell’azione quale parametro fondamentale per l’attribuzione di significato alla nostra interazione con l’ambiente, ma anche come prerequisito ineliminabile dell’esistenza animale: essere calati fisicamente all’interno dell’ambiente, e poter agire su di esso attualizzando le affordances che ci offre (ma anche patire gli effetti delle potenziali azioni delle entità che lo popolano), sono le condizioni ontologiche inaggirabili del nostro sentirci ‘presenti’ nello spazio.
L’esperienza offerta dai mondi videoludici tridimensionali può apparire allora interpretabile attraverso la lezione di Gibson, in quanto votata a replicare le condizioni psicopercettive regolanti la nostra interazione con la realtà fisica. Più nello specifico, calando all’interno di uno spazio ecologicamente credibile il corpo (vicario o effettivo) del giocatore, questi riconoscerà nell’ambiente circostante una vasta e variabile gamma di sollecitazioni attanziali in attesa di attualizzazione. Trovo pertanto ragionevole sostenere che il modello estetico dominante sul terreno del videoludico sia centrato sull’organizzazione spaziale dell’immagine in regime di emulazione dei parametri propri della percezione di spazi reali, con lo scopo di incrementare – a fini spettacolari – l’effetto di presenza del giocatore attraverso la progettazione di ambienti virtuali verosimili da un punto di vista ecologico.
Ora, l’aspetto critico di quanto sostenuto mi pare risiedere nel fatto che gli obiettivi che tale estetica della presenza si prefigge sono destinati a infrangersi contro i limiti testuali degli artefatti videoludici. Bisogna infatti tenere a mente che i videogiochi sono pur sempre dei testi, ovvero delle configurazioni chiuse normate da leggi precise che determinano incontestabilmente cosa può verificarsi durante l’interazione, e cosa no. In quanto oggetti digitali, essi incorporano le regole di funzionamento come proprie qualità strutturali, andanti a costituire quel “contesto di controllo” (Myers 2017: 105) che risulta ineludibile per il giocatore, a differenza che nei giochi fisici, la cui manipolabilità materiale favorisce usi “impropri”, e idealmente infiniti, di essi. Ciò che ritengo fondamentale sottolineare è che la rigidità del contesto di controllo può entrare in conflitto con la forma ambientale assunta dalle immagini, dando luogo a una discrasia irrisolvibile tra la gamma di affordances che lo spazio-mondo narrativo prospetta e le effettive facoltà attanziali conferite all’utente dal testo.
In queste circostanze, l’illusione presenziale appare destinata a incrinarsi, producendo quelle “rotture della presenza” di cui hanno parlato Slater e Steed (2000) in relazione alle esperienze di Realtà Virtuale. Tuttavia, nell’accezione promossa dai due studiosi l’idea di rottura della presenza è riconducibile essenzialmente a fattori interni o esterni al medium, afferenti i primi alle prestazioni del dispositivo, e i secondi ad avvenimenti accidentali verificantisi nello spazio “reale” che tornano a indirizzare l’attenzione del fruitore su di esso, piuttosto che sull’universo schermico. Riflettere solo su tali casistiche mi sembra uno sforzo inconcludente, poiché i fattori interni fanno capo a limitazioni tecniche che saranno plausibilmente risolte con la graduale implementazione della tecnologica, mentre quelli esterni ricadono in un dominio di pura contingenza che non può avere valore euristico. Trovo più opportuno intendere le rotture della presenza come un fenomeno di ordine generale, germinante da problematiche che investono il piano estetico-formale della pratica videoludica: è la involontaria negazione della validità ecologica dell’ambiente virtuale, causata dall’immodificabilità del contesto di controllo, a tradire la sua promessa presenziale.
Se ne può avere riprova in quelle occasioni in cui un ambiente di gioco all’apparenza sconfinato ed estremamente dettagliato offre in realtà interazione ed esplorazione limitate, o comunque non adeguate a soddisfare la mole di sollecitazioni attanziali elicitati sul piano audiovisivo. Nella edizione remastered di The Last of Us (2013) per PlayStation 4, ad esempio, la notevole profondità di campo mantenuta costante dalla “macchina da presa” virtuale e l’ampiezza dell’ambiente entro cui si muove l’avatar di Joel contribuiscono a generare uno spazio traboccante di affordances; salvo che gran parte dei tentativi di entrare in relazione con le entità dell’ambiente da parte del giocatore risulta fallimentare, poiché la configurazione testuale non contempla la possibilità di far entrare l’avatar in relazione con determinati oggetti intradiegetici. In questo modo tali entità passano dall’essere percepite come latori di possibilità per l’azione a presenze meramente ornamentali per accrescere il realismo mimetico del mondo di gioco, il quale a sua volta perderà buona parte della propria credibilità di ambiente per presentarsi come percorso da attraversare seguendo binari prestabiliti – più o meno articolati ma non per questo meno coercitivi quanto a libertà esplorativa concessa –. Oppure, si ha rottura della presenza anche laddove la dimensione passiva e “patente” del corpo del giocatore non sia opportunamente tenuta da conto, per esempio in riferimento a effetti incongrui (e non giustificati narrativamente) rispetto alle azioni esercitate sul corpo dalle entità dell’ambiente; o laddove il testo sia incapace di generare un solido senso di ownership corporea, ovvero di possesso del corpo virtuale (Gregersen e Grodal 2009), come è il caso di pressoché tutti i giochi in VR (anche per ovvie ragioni, considerata la natura per lo più violenta del loro contenuto).
Ora, considerare tali occorrenze di rottura della presenza alla stregua di carenze ontologiche del medium videoludico non potrebbe essere più sbagliato: esse possono legittimamente apparire tali solo se si pone come presupposto logico che il fine ultimo dell’esperienza estetica del videogame debba essere di trascinare il giocatore in un convincente stato psicologico di immersione e presenza nel mondo virtuale. Ma questa non è certo l’unica strada possibile, ed è in tal senso che auspico un aumento delle strategie di game design orientate in senso metalinguistico: il metalinguaggio può riconcettualizzare come risorsa espressiva quella condizione di ‘emersione’ dallo stato presenziale che il giocatore sperimenta nelle circostanze summenzionate.
Occorre, a questo punto, specificare meglio cosa intendere se si parla di pratica metalinguistica nel medium videoludico. Non si tratta di una mera velleità terminologica: come accennato più sopra, è soprattutto in letteratura e nel cinema che il metalinguaggio ha trovato una intensa elaborazione teorica, ma le tipologie di esperienza configurate da queste forme espressive differiscono evidentemente da quelle configurate dal videogioco; arrivare a una definizione più stringente mi sembra dunque necessario per suggerire un giusto inquadramento del problema anche dal punto di vista della progettazione.
In primo luogo, ho scelto di rendere preminente nella mia riflessione il concetto di metalinguaggio su altri suoi sinonimi – non perfettamente omologhi – come ‘autoriflessività’ o ‘metafiction’ poiché ritengo che esso, nell’accezione promossa da De Vincenti in rapporto al cinema cosiddetto ‘moderno’, fornisca una chiave di lettura sufficientemente inclusiva da ricomprendere al proprio interno anche le specificità di altre determinazioni. Nella fattispecie, De Vincenti parla di una pratica metalinguistica radicata nel dominio della forma, in qualità di “operazione costruttiva, stilistica, che assume a elemento di poetica il cinema come riproduzione, tematizzandolo esplicitamente o implicitamente, e introducendo per questa via la dimensione metalinguistica, autoriflessiva” (2013: 48). Il metalinguaggio non si dà, dunque, nella tematizzazione ‘in abisso’ del medium stesso (Grande 2003), rappresentando piuttosto un processo di interrogazione dell’ontologia del dispositivo attraverso la pratica creativa. In ciò riscontro una attinenza assai promettente con alcune considerazioni di Waugh in rapporto alla metafiction letteraria, definita dalla studiosa come una “scrittura di fiction che auto-consapevolmente e sistematicamente guida l’attenzione in direzione del proprio status di artefatto, allo scopo di porre interrogativi sul rapporto tra finzione e realtà”; cosicché “ciò che connette […] tutti gli assai eterogenei scrittori ai quali ci si può riferire in senso ampio come ‘metafinzionali’, è che tutti loro esplorano una teoria della fiction attraverso la pratica della scrittura di fiction” (1984: 2; enfasi in originale).
Credo che l’idea del farsi di una teoria del videoludico attraverso la pratica stessa rappresenti una prospettiva dalle ricadute ancora inesplorate. Tuttavia persiste una differenza fondamentale tra questo medium e la coppia cinema-letteratura, e cioè il discrimine dell’interattività. Senza voler entrare nello specifico del dibattito sull’interattività nelle sue innumerevoli declinazioni, credo che la nozione di ergodicità postulata da Aarseth quale “sforzo non banale per permettere al fruitore di attraversare il testo” (1997: 3) chiarifichi bene la natura di tale eterogeneità, nel senso che in esperienze convenzionalmente considerate ‘passive’ come la visione di un film o la lettura di un libro lo sforzo del fruitore si genera solo su un piano di ordine noematico, afferente cioè ai processi cognitivi e interpretativi messi in atto per attribuire significato e valore al testo; mentre negli artefatti ergodici è richiesto che l’utente intervenga fisicamente sull’oggetto per permetterne il corretto dispiegarsi testuale. Ciò ha ricadute piuttosto significative per l’ideale di una estetica metalinguistica: in media non-ergodici il processo autoriflessivo è tutto concentrato nelle mani dell’autore, il quale struttura una ‘forma’ metalinguistica del testo offerta poi nel momento della fruizione al lettore o allo spettatore che, se dotato delle appropriate competenze analitiche, sarà in grado di risalire all’intento meta-comunicativo dell’artista e maturare un atteggiamento critico. Nei testi ergodici, invece, per definizione l’utente partecipa in modo attivo all’esperienza, e ciò sbilancia a suo favore la dimensione metalinguistica. Ciò non vuol dire che manchi una intentio auctoris, anzi: se il metalinguaggio del cinema moderno accoglie una congerie di stili di regia in cui il concetto stesso di autore come demiurgo è messo in discussione a favore di una relazione più aperta e finanche conflittuale con il reale fenomenico, invece il controllo autoriale sulla configurazione dell’universo testuale digitale non viene meno, perché in regime di simulazione non può sussistere un design che non sia organizzato in maniera assoluta, stabilendo in modo inaggirabile le “regole” di funzionamento del testo stesso, quel che può o non può essere fatto nell’interazione con esso (il sopracitato “contesto di controllo” di Myers). Si ha a che fare quindi con una progettazione dell’esperienza non meno calcolata che nelle opere che aspirano all’immersione e alla presenza, ma di segno opposto: qui la manipolazione della libertà attanziale dell’utente è rivelata, anziché celata dietro la supposta trasparenza dell’ambiente simulato, e l’utente stesso fa esperienza diretta di tale ingerenza durante la fruizione, si potrebbe dire sperimentandola in prima persona in forma emergente e contribuendo così al suo realizzarsi testualmente, come potenzialità che aspetta di essere innescata.
Se il metalinguaggio cinematografico è espressione di una sensibilità estetica che interroga la pratica della regia e ripensa il senso e il valore delle immagini, nei media ergodici questa componente di dubbio creativo da parte dell’autore è assente, e il metalinguaggio trova corpo in strategie testuali oculatamente architettate per indurre nel fruitore determinati effetti. Pertanto, mi pare ragionevole approdare alla conclusione che sia proficuo, in relazione al medium videoludico, parlare non tanto di metalinguaggio (almeno, non nell’accezione maturata in altri contesti), quanto di ‘effetti metalinguistici’ generati da un sistema testuale elaborato retoricamente allo scopo – perseguito consciamente – di discutere la propria natura testuale nel corso dell’interazione e dar luogo a procedimenti di distanziamento cognitivo e razionale.
L’elaborazione progettuale di effetti metalinguistici che orientino l’esperienza di gioco verso l’autoriflessività può rappresentare un campo di sperimentazione sconfinato, una traiettoria estetica oggi quasi inesplorata. Alcuni esempi virtuosi di design metalinguistico attestano poi che una tale impresa può ben coniugare arditezza formale e appetibilità commerciale: Shadow of the Colossus (2005) e BioShock (2007) – che pongono il giocatore di fronte a non-scelte etiche deplorevoli rispetto alle quali l’unica, radicale alternativa è ‘morale’ è non giocare –, ma anche più recentemente Astro Bot: Rescue Mission (2018) e Moss (2018) – che problematizzano la logica delle affordances mettendo l’utente in condizione di controllare due avatar contemporaneamente, e infrangendo in maniera deliberata la verosimiglianza ecologica dell’ambiente virtuale –, sono tutti esempi di progettualità che aspirano a far maturare nel giocatore consapevolezza della natura mediale dell’esperienza, e che tuttavia non si precludono la possibilità di raggiungere un vasto pubblico di potenziali acquirenti.
In conclusione, ritengo che il metalinguaggio videoludico possa costituire una traiettoria di studio e al contempo di sperimentazione pratica in grado di coniugare proficuamente commerciabilità del prodotto e arricchimento dell’esperienza estetica: una ‘via virtuosa’ che il medium videoludico dovrebbe avere l’ardire di iniziare a percorrere.